L’art.52 (2)(a) (cause di nullità relative) del Regolamento sul marchio comunitario prevede che questi "può essere dichiarato nullo se la sua utilizzazione può essere vietata in virtù di un altro diritto anteriore, in particolare del diritto al nome, secondo il diritto nazionale che ne disciplina la protezione”. Il Regolamento opera dunque un rinvio ricettizio – e non è questo l’unico caso - del diritto dello Stato membro. L’art.8 del Codice della Proprietà Industriale italiano (ritratti di persone, nomi e segni notori) sancisce, a sua volta in particolare al comma 3 che "se notori, possono essere registrati come marchio solo dall’avente diritto o con il consenso di questi…i nomi di persone, i segni usati in campo artistico…etc"...
Il problema dell’interpretazione di questa norma è stato ora affrontato per la prima volta dal giudice comunitario (TPI, T 165/06, 14 maggio 2009, Elio Fiorucci v. Edwin Co. Ltd) nell’ambito del giudizio di nullità proposto da Elio Fiorucci, titolare del relativo marchio di abbigliamento, ceduto ad una multinazionale giapponese, tale Edwin Co., nei confronti di quest’ultima che aveva registrato il marchio a nome proprio davanti al’UAMI di Alicante. La prima Commissione di ricorso, rovesciando la precedente decisione della divisione di annullamento, ha ritenuto, tra l’altro, che la causa di nullità relativa di cui all’art. 52, (2)(a) RMC non sia applicabile al caso di specie, non rientrando tra i casi previsti dalla normativa nazionale (art. 8( 3) CPI). Secondo la Commissione, la ratio della norma nazionale è quella di impedire lo sfruttamento a fini commerciali del nome di una persona celebre da parte di soggetti estranei per proteggere le potenzialità commerciali di un nome divenuto famoso in ambiti estranei a quello propriamente commerciale. Dovendo rinviare al diritto nazionale ed in assenza di precedenti giurisprudenziali, la Commissione ha ritenuto che questa fosse la interpretazione della dottrina più autorevole e dominante in Italia, accuratamente indicata. Nella fattispecie, la notorietà di Elio Fiorucci quale uomo di cultura sarebbe diretta conseguenza della notorietà di Elio Fiorucci quale stilista e, quindi, della sua attività commerciale, per cui la registrazione del nome Elio Fiorucci come marchio comunitario da parte della titolare non rientrerebbe tra i casi contemplati dalla citata disposizione nazionale.
Di diverso avviso, invece, il Giudice comunitario secondo il quale – anche sulla base di dichiarazioni rese in udienza da uno dei legali della ricorrente - nulla escluderebbe che nel diritto italiano anche chi abbia svolto una attività imprenditoriale commerciale possa produrre quella notorietà che la norma intende proteggere da comportamenti di sfruttamento parassitario.
Se questa interpretazione sia corretta o meno alla luce del nostro diritto e conforme o meno agli orientamenti dottrinali è problema che merita approfondimenti in altra sede. Qui vorrei invece rilevare alcuni aspetti procedurali che potrebbero inficiare la motivazione del TPI.
Innanzi tutto mi pare che l’interpretazione del diritto sostanziale del marchio comunitario (sia come emerge dalla Direttiva che dal corrispondente Regolamento) vada riservata alla Corte di Giustizia, e non al TPI che deve unicamente accertare la legittimità della decisione contestata. Sotto questo aspetto è dubbio che l’accertamento dei requisiti di sussistenza dell’impedimento relativo di cui si discute si estenda a quello della corretta interpretazione ed applicazione da parte dei Giudizi nazionali. Vorrei ricordare a riguardo che tutte le sentenze classicamente interpretative, come quelle rese dalla Corte pregiudizialmente ex art.234, fanno sempre riserva della competenza del tribunale a quo nella applicazione del principio enunciato al caso di specie.
E’ pur vero che nella sentenza riferita il Tribunale è attento nel rispettare i limiti della legittimità della motivazione della decisione contestata, ma in sostanza sostituisce la propria interpretazione dell’art. 8(3)(a) CPI a quella riportata dalla Commissione. Censurata, oltre tutto, per non aver correttamente, a sua volta, interpretata quella dottrina.
Sconcerta, poi, che a sostegno del proprio convincimento il TPI si basa tra l’altro, sull’interpello e le dichiarazioni rese in udienza (non so quanto ritualmente previsto nelle norme procedurali seguite dalla CdG/TPI) da chi rappresentava una delle parti in causa (il patrono della ricorrente come tale qualificato).
Non credo che siamo sulla via giusta. Aprire alle disquisizioni giuridiche locali non porta da nessuna parte. Immaginate la situazione in cui dovessero essere valutate le norme di Paesi di recente entrati a far parte della Unione Europea, quali la Lettonia o la Slovacchia. Per carità: ognuno è libero, anche in diritto, di esprimere e magari cambiare le proprie idee, ma vorrei evitare la sindrome De Chirico, l’illustre artista che negli ultimi anni aveva preso, notoriamente, il vezzo di autenticare come proprie, opere che palesemente non lo erano, e negare, al contrario – la paternità di altre perché non gli piacevano più, seminando panico e disordine sul mercato.
Mi pare invece che la verifica dell’applicabilità dell’impedimento di cui parliamo è e resta un problema del diritto comunitario di marchio, all’interno del cui sistema va cercata la soluzione, a cominciare dagli interessi considerati, la natura e funzione riconosciuta del marchio comunitario, e come questo viene percepito dal pubblico rilevante, in relazione ai prodotti e servizi considerati, e non solo. All’interno di questo sistema trovano luogo anche situazioni, come del resto avviene anche negli ordinamenti interni, che non attengono alla funzione distintiva del marchio, inteso come indicazione di origine commerciale (come il marchio di rinomanza, ad esempio). Ciò peraltro, come nella protezione dei nomi notori, non comporta la legittimità dell’ingerenza nel loro apprezzamento a livello nazionale. L’esistenza del dato normativo dovrebbe essere sufficiente ai fini dell’art.52 RMC e sarei quindi per una interpretazione estremamente restrittiva della norma.
C’è da augurarsi, anche per evidenti necessità di certezza giuridica, che la Corte di Giustizia, magari attivata dallo stesso UAMI, faccia chiarezza sul punto.
5 commenti:
Condivido alcune riflessioni sulla sentenza del TPI, ma non mi è chiaro il commento in materia d'interpretazione del diritto sostanziale del marchio comunitario.
Il Tribunale valuta la legittimità della decisione contestata, tuttavia, quando quest'ultima è fondata sull'interpretazione di una norma di diritto sostanziale (in questo caso nazionale), il Tribunale non può far altro che verificare se questa interpretazione è corretta. In caso contrario cosa dovrebbe fare il tribunale? dichiararsi incompetente? di fatto questo significherebbe limitare il controllo del Tribunale sulle decisioni delle commissioni di ricorso. Mi pare inoltre che il ricorso al Tribunale non sia paragonabile alla procedura di rinvio pregiudiziale alla Corte.
Cordiali saluti e complimenti per il blog.
Come scrivo, ritengo "che l’interpretazione del diritto sostanziale del marchio comunitario (sia come emerge dalla Direttiva che dal corrispondente Regolamento) vada riservata alla Corte di Giustizia, e non al TPI che deve unicamente accertare la legittimità della decisione contestata. Sotto questo aspetto è dubbio che l’accertamento dei requisiti di sussistenza dell’impedimento relativo di cui si discute si estenda a quello della corretta interpretazione ed applicazione da parte dei Giudizi nazionali. " La mia idea, pertanto, è che sia la Commissione che il TPI nel caso dell'art. 52, 2. a) e 8, 4 RMC, dovrebbero limitarsi a verificare la condizione di ammissibilità della opposizione e quindi a "tener conto del diritto anteriore invocato senza poter rimettere in discussione la qualificazione stessa di tale diritto" (T- 225/06- 309/06, (BUD).
Quindi, se ho capito bene, la divisione di annullamento, la commissione di ricorso ed il TPI avrebbero dovuto tutti riconoscere che l'esistenza del diritto anteriore (invocato sulla base del diritto nazionale) non era chiara e rigettare la domanda di nullità del marchio Elio Fiorucci senza procedere ad alcuna interpretazione? A differenza del caso Bud però, nel caso Fiorucci il diritto anteriore invocato non credo fosse oggetto di alcun procedimento giurisdizionale in italia.
Inoltre mi domando, ma se il TPI non fosse competente a pronunciarsi sull'interpretazione di una norma di diritto italiano, a che titolo lo sarebbe la Corte?
L'auspicio che l'interpretazione delle questioni di diritto sostanziale del marchio comunitario sia riservata alla sola CdG non sembra però compatibile con il considerando 14 dell'ex reg. Ce 40 del 1994, che ricorda che il TPI esercita tutte le competenze che sono, in virtù dello stesso reg, demandate alla Corte di Giustizia.
Qualcuno potrebbe gentilmente indicarmi l'esatta disciplina relativa all' uso del proprio nome nella moda?
Ringrazio anticipatamente
Serena T.
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