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08 marzo 2009

La crisi economica è anche questione d'immagine

Eleonora Fia


Come ogni anno, la rivista americana Fortune ha stilato la graduatoria dei 50 brand più ammirati al mondo (da clienti e addetti ai lavori).

Scorrendo la classifica, dalla prima alla cinquantesima e ultima posizione, si trovano poche sorprese e molte conferme di quello che è il sentire comune verso alcune delle aziende leader del panorama economico globale.
In testa alla lista troneggia Apple, a seguire, la holding americana Berkshire Hathaway e la giapponese Toyota Motor. Molti dei primi dieci nomi della lista sono fiori all’occhiello della zoppicante economia statunitense, evidentemente capaci, anche in tempi di crisi, di restare tra i brand più attraenti: Google, al quarto posto, ha l’aura di zenith della new-economy, Johnson & Johnson, al quinto, è un marchio storico, simbolo del rassicurante profumo dell’infanzia, in cui gli scheletri del credit-crunch stavano ancora tutti nell’armadio.

Federal Express e Microsoft, rispettivamente al settimo e decimo posto, ben rappresentano la efficienza a stelle e strisce. Starbucks, simbolo della mobilità e della freschezza apparente dell’imprenditoria Usa di fine ‘900, passa dalla sesta alla trentaquattresima piazza; GoldmanSachs, una delle banche d’affari più conosciute del pianeta, scala dal decimo al quindicesimo posto.
Questi due brand, sino a pochi mesi fa sinonimo di successo imprenditoriale, hanno rapidamente perso smalto e posizioni.
La classifica è però utile anche per leggere in maniera più chiara l’effetto domino cui il quasi collasso dell’economia ha portato;
Analizzando più in generale i nomi delle 50 compagnie predilette, si scopre che ben 11 appartengono alla categoria tecnologia & informatica che non a caso è uno dei settori che meno sta soffrendo la contrazione dei consumi e che meglio riesce a veicolare un’immagine positiva e propositiva dei propri affari.
Altrettanto evidente è la scarsa rappresentanza dell’industria automobilistica, prostrata dalla crisi e in difficoltà da oltre trent’anni. Resistono solo due marchi: l’elitario Bmw che può contare su un mercato ristretto e solido e il colosso nipponico Toyota.

Il rapporto tra crisi economica e public image, è a doppio filo: un’immagine affidabile e di successo può aiutare a uscire dal pantano, ma viceversa un marchio debole, in tempi di depressione, rischia di creare un circolo vizioso a continuo perdere. Da un'attenta lettura risulta infatti che sia il pubblico sia gli analisti del mercato recepiscono come inaffidabili i marchi delle società traballanti.

Fortune fa un elenco anche delle compagnie meno ammirate. Ai primi posti troviamo Circuit City Stores, catena di grande distribuzione fallita a inizio 2009; National City Bank, primo tra i grandi istituti di credito americani a dare segni di cedimento a inizio 2008; McClatchy Newspapers, rappresentante di un settore che naviga a vista tra perdite e tagli di personale. Tra i peggiori si scorgono nomi noti dell’industria dei trasporti (Ford, Fiat, American Airlines e United Airlines), vittime di gestioni stravaganti, di un mercato al limite della saturazione e della carta perdente, a livello di brand, degli aiuti pubblici.

Proprio tra le aziende più in crisi appare ancor più evidente la relazione tra immagine e successo, i colossi statici e fuori equilibrio sembrano riscuotere l’insuccesso disegnato nei tratti della loro public image.

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