Raffaele Ranieri
C’era una volta un falegname danese, il Signor Ole Klirk Christiansen, noto ai più come Mr. Lego. Il termine “Lego”-coniato traendo spunto dalla locuzione danese leg godt, ossia “gioca bene”- è divenuto ormai, dalla sua prima registrazione come marchio d’impresa in Danimarca nel 1950, sinonimo di una peculiare cultura pedagogica attraverso il gioco, con la quale si sono intrattenuti oltre 300 milioni di bambini e non.
Un marchio che ha identificato a tal punto un modus ludendi che l’azienda, sin dagli anni ‘60 e ‘70, all’interno dei suoi cataloghi, esortava l’utente, attraverso delle note, a non confondere il marchio d’impresa col prodotto stesso, vale a dire il celebre mattoncino o comunque altri prodotti peculiari.
Ed appunto il celebre mattoncino, artefice di un’azienda che è passata da un’unica filiale danese e 40 dipendenti, a filiali sparse in tutto il pianeta e quasi 8.000 dipendenti, è stato oggetto di numerose peripezie giuridiche in tutto il mondo. Alla scadenza del brevetto, avvenuta nel 1988, furono moltissime le aziende che infatti riprodussero il mattoncino per eccellenza. La più temibile di tutte fu senz’altro la cinese Coko Toy Co, che fabbricava mattoncini compatibili a quelli Lego a prezzi inferiori.
Gli esiti giudiziari delle vicende, non sempre favorevoli, spinsero la Lego al tentativo di registrare come marchio di forma l’aspetto per così dire borchiato dei mattoncini, nel tentativo di interrompere in via definitiva le produzioni dei concorrenti (la questione è tutt’ora pendente, dopo una iniziale pronuncia sfavorevole della Corte Federale Canadese, che ha ritenuto il marchio non registrabile, in quanto trattasi di forma funzionale).
Anche in Italia l’amato mattoncino non ha avuto miglior sorte. La Corte si è infatti occupata (nuovamente) dei mattoncini Lego e della loro tutela in una sua recentissima pronuncia (29 febbraio 2008, n. 2578), stabilendo che, l’azienda concorrente che produce e pone in commercio elementi modulari non coperti da brevetto, non commette atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 c. 3, cod. civ. (ed escludendo ovviamente l’ipotesi di imitazione servile confusoria ex art. 2598 c. 1).
Pare dunque doversi desumere che, la chiave di risoluzione del problema, secondo la Corte di Cassazione, risiede nel fatto che la riproduzione di forme non coperte da brevetto non sia vietata tout cour, bensì solo nel caso in cui tale imitazione possa ingenerare nel pubblico “confusione sulla provenienza dei prodotti”.
Un marchio che ha identificato a tal punto un modus ludendi che l’azienda, sin dagli anni ‘60 e ‘70, all’interno dei suoi cataloghi, esortava l’utente, attraverso delle note, a non confondere il marchio d’impresa col prodotto stesso, vale a dire il celebre mattoncino o comunque altri prodotti peculiari.
Ed appunto il celebre mattoncino, artefice di un’azienda che è passata da un’unica filiale danese e 40 dipendenti, a filiali sparse in tutto il pianeta e quasi 8.000 dipendenti, è stato oggetto di numerose peripezie giuridiche in tutto il mondo. Alla scadenza del brevetto, avvenuta nel 1988, furono moltissime le aziende che infatti riprodussero il mattoncino per eccellenza. La più temibile di tutte fu senz’altro la cinese Coko Toy Co, che fabbricava mattoncini compatibili a quelli Lego a prezzi inferiori.
Gli esiti giudiziari delle vicende, non sempre favorevoli, spinsero la Lego al tentativo di registrare come marchio di forma l’aspetto per così dire borchiato dei mattoncini, nel tentativo di interrompere in via definitiva le produzioni dei concorrenti (la questione è tutt’ora pendente, dopo una iniziale pronuncia sfavorevole della Corte Federale Canadese, che ha ritenuto il marchio non registrabile, in quanto trattasi di forma funzionale).
Anche in Italia l’amato mattoncino non ha avuto miglior sorte. La Corte si è infatti occupata (nuovamente) dei mattoncini Lego e della loro tutela in una sua recentissima pronuncia (29 febbraio 2008, n. 2578), stabilendo che, l’azienda concorrente che produce e pone in commercio elementi modulari non coperti da brevetto, non commette atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 c. 3, cod. civ. (ed escludendo ovviamente l’ipotesi di imitazione servile confusoria ex art. 2598 c. 1).
Pare dunque doversi desumere che, la chiave di risoluzione del problema, secondo la Corte di Cassazione, risiede nel fatto che la riproduzione di forme non coperte da brevetto non sia vietata tout cour, bensì solo nel caso in cui tale imitazione possa ingenerare nel pubblico “confusione sulla provenienza dei prodotti”.
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