Trademarks, Brands, Patents, Designs, Made in Italy, Copyrights, Competition Law, Contracts and Enforcement

30 gennaio 2009

Il punto sui depositi CTM: numeri e statistiche

Eleonora Fia

Secondo quanto certificato da Teleborsa è dalle imprese che proviene la maggior parte (92%) delle domande di marchio comunitario. Le persone fisiche si attestano invece intorno al 7% dei depositi, cifra comunque significativa, spiegabile sia con la tendenza abbastanza diffusa ad intestare il marchio come bene personale e non come bene dell'azienda, sia con la necessità/volontà di caratterizzazione di nuove imprese che si vanno formando o che non hanno ancora una struttura societaria.

Piuttosto basso è invece il contributo al numero di depositi da parte di EPR-Università.

Forte è invece la focalizzazione su alcune tipologie di beni di largo consumo. Al primo posto nella classifica dei marchi depositati da imprese italiane si incontra la Classe 9, che raggruppa al suo interno prodotti molto differenti tra loro, tra cui occhiali, dispositivi elettronici ed elettrici, protezioni, supporti digitali, distributori automatici ed estintori, mentre al secondo posto troviamo la classe 25 (abbigliamento e calzature). L'Italia, pur avendo in alcuni casi delocalizzato all'estero la fase di produzione dei prodotti, continua a mantenerne la gestione e quindi anche il marchio.

La riprova dello sviluppo che si sta avendo nel terziario avanzato è il rilevante numero di marchi depositati nella classe 35 (pubblicità, gestione di affari commerciali, amministrazione commerciale, lavori di ufficio). Aumenta anche il numero di depositi nella Classe 42 (servizi scientifici e tecnologici e relativi servizi di ricerca e progettazione; servizi di analisi e di ricerche industriali; progettazione e sviluppo di hardware e software).
Dato allarmante è invece il contenuto numero di depositi per i prodotti alimentari e bevande: il settore alimentare stenta ancora a vedere nel marchio uno strumento di tutela. Inoltre i prodotti agroalimentari italiani sono spesso oggetto di pesanti contraffazioni e di imitazioni, (senza contare i numerosi casi di utilizzo di nomi o immagini di richiamo (detto anche come "italian sounding").Si tratta di una falsa garanzia per i consumatori stranieri ma soprattutto ad un danno colossale per le aziende del nostro Paese: oltre 60 miliardi di euro, oltre la metà del valore dell’agroalimentare italiano e tre volte superiore alle esportazioni nazionali del settore.

Secondo la nota di Unioncamere il settore arredamento, pur essendo una realtà produttiva peculiare del territorio italiano per la presenza di diversi distretti nel Centro e Nord Italia, non ricorre all'utilizzo del marchio comunitario con quella frequenza che sarebbe lecito aspettarsi dal numero elevato di depositi di modelli industriali.

L'UAMI rende noti anche alcuni numeri: dal 1999 al 2006 sono state 34.073 le domande italiane di marchio comunitario, cifra pari all'8,2% del totale (403.206, la maggior parte delle quali, il 68,1%, si deve ai Paesi del G9). Nei sette anni considerati, l'82% del totale dei brevetti proviene delle regioni settentrionali. Il Nord-Ovest addirittura ne concentra il 50,1%, grazie all'apporto fornito dal Piemonte e dalla Lombardia. Veneto ed Emilia-Romagna sono a loro volta in gran parte tributarie della performance raggiunta dal Nord-Est (31,9%). La quota rimanente delle domande si deve invece al Centro per il 13,4% e al Sud e Isole per il 3,2%. Il Centro è peraltro l'area che registra il più alto tasso di crescita per il deposito di brevetti.

Secondo il quadro tracciato dall'EPO, l'Italia risulta quartultima nella classifica dei membri del G9, preceduta dalla Germania e seguita solo da Russia e Cina. Schiacciante è poi il confronto con Usa e Giappone, dal quale emerge un gap strutturale davvero considerevole.

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