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23 gennaio 2008

Siamo in Europa! Siamo in Europa?

Olga Capasso

Ebbene sì, un giorno dopo la Francia, ma ben 6 giorni (!) prima dell’ultima data utile, anche l’Italia ha ratificato la Convenzione sul Brevetto Europeo 2000. A maggio scorso, noi di AIPPI Italia eravamo stati tra i primi ad organizzare a Roma un pomeriggio di studi sull’argomento, anche per richiamare l’attenzione sul timer che era scattato, il cui allarme avrebbe inesorabilmente squillato il 12 dicembre 2007 a mezzanotte.

Ringrazio personalmente tutti coloro che,
vestendo anche panni e ruoli non propri, si sono fatti carico di seguire e puntellare, pressoché quotidianamente per quasi due mesi, l’iter legislativo del decreto di recepimento. Così potrà ancora accadere, tra l’altro, che l’Italia venga designata tra gli Stati di una domanda di brevetto Europeo, e non è cosa da niente. Non a caso ho usato il verbo “accadere” perché, ahimè, di determinismo mi sembra ce ne sia stato ben poco, mentre di fatalismo tanto.

Ma non fa nulla: ce l’abbiamo fatta e continueremo nella nostra attività professionale e di formazione, con sempre maggior energia. A questo punto - ribadita la volontà di restare in Europa anche per il piccolo, ma strategicamente importante, mondo italiano della proprietà industriale e intellettuale - mi chiedo: perché non traiamo vantaggio dalla avvenuta sensibilizzazione del mondo politico, e andiamo avanti? Mi riferisco alla posizione dell’Italia sull’accordo di Londra del 17 ottobre 2000 sulla traduzione nelle diverse lingue nazionali dei Brevetti Europei rilasciati.


Contrariamente alla Convenzione sul Brevetto Europeo 2000, l’accordo di Londra non è obbligatorio: si resta nella CBE, anche se non si ratifica. Affinché entri in vigore, è sufficiente che 8 Stati lo ratifichino. Già dal luglio 2006, i rispettivi Parlamenti di 10 Stati hanno approvato l’accordo e, di questi, 7 hanno già depositato lo strumento di ratifica o di accesso, a seconda dei casi. Si pre
vede che la Francia lo faccia a breve e che, pertanto, l’accordo entri in vigore nel 2008.

L’Italia non è in questo gruppo. A mia conoscenza la discussione di un decreto legge di ratifica dell’accordo di Londra non è nel programma di questo Governo, come non lo era nel programma del Governo precedente. Insomma non è affar nostro. Cosa accadrebbe se l’Italia lo ratificasse? La ratifica permetterebbe di effettuare la validazione in Italia di un brevetto Europeo, senza dover depositare la traduzione in Italiano del testo, nel caso in cui il brevetto Europeo sia rilasciato in una (o più) delle lingue ufficiali dell’EPO, indicate dall’Italia stessa, quindi presumibilmente (almeno) in inglese.

E’ comunque previsto che si possa riservare il diritto di richiedere il deposito della traduzione in italiano delle sole rivendicazioni.
In caso di disputa, a richiesta del presunto contraffattore, la traduzione dovrà essere fornita a spese del titolare. Ma perché l’Italia è contraria alla ratifica? Cercherò di analizzare e rispondere alle principali obiezioni che - nel corso degli anni – mi sembra di aver colto.

La prima obiezione rigua
rda la tutela della garanzia di una piena conoscenza dell’oggetto dell’esclusiva conferita dal brevetto che il sistema brevettuale deve dare ai terzi. Questo, sia per rendere consapevoli i terzi della possibile interferenza del brevetto con la loro attività, sia per fornire al titolare uno strumento palese di tutela. In altre parole, la conoscenza da parte dei terzi del testo brevettuale è fondamentale perchè il sistema funzioni. Tuttavia, studi ormai pluriennali sulla percentuale di ottenimento delle copie tradotte di brevetti rispetto a quelle ottenibili dall’EPO in una delle 3 lingue ufficiali, dimostrano chiaramente come l’accesso e la conoscenza del testo brevettuale non passi attraverso l’analisi della sua traduzione nella lingua nazionale, quanto piuttosto attraverso l’analisi del testo originale, molto spesso quello della domanda di brevetto. Inoltre, l’analisi è effettuata da parte di professionisti, sia interni alle società che consulenti esterni, specializzati e qualificati i quali, oltre che leggere il testo, forniscono un parere sulla sua interpretazione. A questo punto la lingua del brevetto non è un problema.

La seconda obiezione è certamente di minor rilievo ma, forse, non dal punto di vista pratico. Mi riferisco ad un interesse di tipo corporativistico
, poiché le “traduzioni” rappresentano una voce di tutto rispetto ne
i fatturati di molti studi brevettuali. Ma facciamo veramente i nostri interessi perseguendo questa politica protezionista? Ormai anche le grandi imprese, per non parlare delle PME, hanno un budget sempre più controllato per la tutela e difesa della loro proprietà industriale e intellettuale. Se si consentisse loro di investire in altri aspetti della IP che non siano le traduzioni, aumenterebbero il numero di validazioni nei Paesi EP e, presumibilmente, anche il numero di depositi di domande di brevetto. Aumenterebbero di conseguenza i pareri, le tutele, le difese, gli attacchi, i negoziati, i trasferimenti …, insomma aumenterebbe quel business qualificato che rappresenta il motore per una crescita della cultura della proprietà industriale, anche da noi. Per questo motivo, la difesa di questa voce di introito da parte degli addetti al settore mi sembra miope e foriera di niente di buono per il futuro. Scrive lo scrittore greco-francese Vassilis Alexakis:
Le lingue non sono destinate a combattersi ma a garantire il dialogo
Sarei ben contenta di conoscere le Vostre opinioni sull’argomento.

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