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20 gennaio 2008

Ma cosa si pretende!

Stefano Sandri


Nella sentenza T-111/06, del 21 novembre 2007, Wesergold Getränkeindustrie GmbH & Co. KG vs. Lidl Stiftung & Co. KG, viene affrontato a fondo il problema della motivazione delle decisioni delle Commissioni di ricorso (Art. 73 RMC). I marchi a confronto, si trattava di bevande non alcoliche e succhi di frutta, erano da un lato il figurativo VITALFIT e dall’altro il denominativo VITAFIT.

La supposta insufficienza di motivazione della decisione impugnata sull’elemento che a mala pena si vede nel marchio figurativo e che palesemente non poteva fare la differenza, ha indotto il Tribunale a ribadire che l’obbligo della corretta motivazione incombe alla Commissione negli stessi termini previsti nei regolamenti della Corte e dai principi generali procedurali del diritto comunitario (art.235 UE).

Pertanto, la motivazione esige che il ragionamento del giudicante appaia in modo chiaro ed inequivoco al duplice fine di permettere la comprensione del contenuto della decisione alle parti interessate ed il controllo di legalità da parte dei giudici (62). Niente di nuovo quindi, se non la conferma che escluse tutte le discussioni risultate poi futili sulla natura e le funzioni delle Commissioni di Ricorso dell’UAMI e l’approccio supponente e riduttivo degli stessi organi giurisprudenziali della Comunità, le loro decisioni hanno, anzi debbono avere, la struttura di vere e proprie sentenze. Questo obbligo, probabilmente, o forse sarebbe meglio dire volutamente, sottovalutato ad Alicante, porta naturalmente a delle ulteriori conseguenze di ordine procedurale nei procedimenti inter-partes, come conferma la discussione tuttora aperta sui limiti della deduzione e valutazione delle prove a seguire nel corso dei procedimenti (ALCON et sequitur).

La sentenza menzionata sembra aggravare il quadro ricordando la tesi della continuità funzionale (BABY-DRY) tra le Commissioni e le altre istanze dell’Amministrazione dell’UAMI ed applicarla nel contesto dell’obbligo della motivazione al rapporto tra le decisioni delle Divisioni di opposizioni e quelle, appunto, delle Commissioni. In buona sostanza le decisioni delle rispettive unità decisionali vanno integrate quanto all’interpretazione della completezza della motivazione delle decisioni rese dalle seconde (70). Sembra evidente che l’applicazione di questo principio comporta l’attenta ricognizione da parte della Commissioni delle decisioni davanti ad esse impugnate al fine di evitare duplicazioni, contraddizioni o carenze di ogni genere nella motivazione per le quali non costituisce certo sollievo l’applicazione della motivazione implicita o per relationem (67). Lo stesso è a dirsi quanto alle parti quando vorranno ricorrere avanti al TPI, per non esporsi al rischio di rigetto per non aver correttamente intepretato /considerato la motivazione del provvedimento impugnato nel sua completezza ed integrabilità. A distanza di anni, avendo vissuto direttamente e dall’interno l’esperienza delle Commissioni, mi pare di poter dire che non si è ancora usciti dalla ambiguità di una situazione in cui, da un lato, l’Ufficio, di cui le Commissioni fanno pur sempre parte, privilegia la quantità rispetto alla qualità, coprendo i grandi numeri cui è costretto con la foglia di fico della produttività, e dall’altro la Corte di giustizia impone il rispetto delle sue regole, imponendo standard da sentenze di Cassazione, salvo lamentare incongruamente, insieme agli utenti, la diminuzione della qualità in un rapporto che vede il numero delle decisioni pronunciate all’anno dalle rispettive istanze di 150 (CDG e TPI insieme) a 1500 (Commissioni di Ricorso) .

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